Fui contento di rivedere la mamma. Stava molto meglio benché ancora in letto. I dottori avevano consigliato un'altra operazione, e c'era speranza di guarigione. Ma io ero preoccupato. Perché un'altra operazione? Vittima io stesso di troppe speranze sempre deluse, ero propenso a lasciare che la mamma restasse com'era. I miei sentimenti erano governati dal timore e non parlavo con nessuno di ciò che
sentivo. Avevo già cominciato ad accorgermi che i miei sentimenti erano troppo lontani da quelli di coloro che mi circondavano perché potessi chiacchierarne con gli altri.
Non tornai a scuola. Me ne stavo invece a giocare in cortile, da solo, facendo rimbalzare una palla di gomma contro la palizzata, disegnando figure sulla terra molle con un vecchio coltello, o leggendo tutti i libri che trovavo per casa. Non vedevo l'ora d'esser in età di provvedere a me stesso.
Lo zio Edward venne da Carters per portare la mamma a Clarksdale per l' operazione; all'ultimo momento io insistei affinché mi portassero con loro. Mi vestii in fretta e furia e andammo alla stazione. Per tutto il viaggio rimasi seduto a fantasticare, senz'aver coraggio di guardare mia madre, desideroso di tornare a casa, e nello stesso tempo desideroso di proseguire. Arrivammo a Clarksdale e prendemmo un tassì per andare nello studio del dottore. La mamma era allegra, e
sorrideva, piena di coraggio, ma sapevo che era preoccupata quanto me. Quando arrivammo nella sala d'aspetto del dottore, in me s'era formata la convinzione che la mamma non sarebbe mai più guarita. Finalmente venne fuori il dottore col suo camice bianco e mi strinse la mano, e poi fece entrare la mamma. Lo zio Edward se ne andò per fissare una stanza e un'infermiera. Io mi sentivo oppresso. Rimasi ad aspettare. Alcune ore dopo il dottore si fece sulla porta.
«Come sta mia mamma?»
«Bene» disse.
«Si rimetterà del tutto?»
«Te lo potrò dire tra qualche giorno.»
«La posso vedere?»
«No, adesso no.»
Più tardi zio Edward tornò con un'ambulanza e due uomini che portavano una barella. Entrarono nel gabinetto del dottore e portarono fuori la mamma; era distesa, con gli occhi chiusi, il corpo tutto fasciato di bianco. Avrei voluto correre a lei e toccarla, ma non mi riuscì di muovermi.
«Perché la portano via in questo modo?» domandai a zio Edward.
«Non vi sono facilitazioni assistenziali per la gente di colore, e dobbiamo far così.»
Stetti a guardare gli uomini che portavano la barella giù per le scale e poi rimasi sul marciapiede a guardare che sollevavano mia madre e la introducevano nell'ambulanza che poi partì. Capii che la mamma era uscita dalla mia vita; potei sentirlo.
Zio Edward ed io restammo in una pensione; ogni mattina lui andava nella casa di camere ammobiliate a chieder notizie della mamma e ogni volta tornava abbattuto e taciturno. Alla fine mi disse che l'avrebbe riportata a casa.
«Che speranze ci sono per la mamma, in realtà?» gli chiesi.
«Sta molto male» disse.
Lasciammo Clarksdale; la mamma viaggiò su una barella, nel bagagliaio, assistita dallo zio Edward. Tornati a casa, ella rimase per più giorni a letto, lamentandosi, lo sguardo vacuo. Diversi medici la visitarono e se ne andarono senza alcun commento. La nonna sembrava impazzita. Zio Edward, che era andato a casa sua, tornò di nuovo, e furono chiamati ancora altri medici che ci dissero che nel cervello della mamma s'era formato un grumo di sangue, e ch'ella era stata colpita da un'altra paralisi.
Una volta, di notte, la mamma mi chiamò a sé e mi disse che non poteva resistere a quel dolore, e che voleva morire. Io le tenni la mano e la pregai di calmarsi. Quella notte io cessai di reagire a mia madre; i miei sentimenti erano agghiacciati. La assistevo semplicemente, sapendo ch'ella soffriva. Rimase a letto dieci anni, migliorando a poco a poco ma senza mai guarire del tutto, e ricadendo periodicamente nel suo stato paralitico. La famiglia si era dissanguata per combattere la sua infermità, e non c'era più modo di ottenere altro denaro. La sua
malattia divenne a poco a poco qualcosa di ormai accettato, in casa, qualcosa che non poteva essere fermato né evitato.
Le sofferenze di mia madre divennero una specie di simbolo, nella mia mente, un simbolo che riassumeva tutta la miseria, l'ignoranza, l'impotenza, le ore e le giornate dolorose di fame e di smarrimento, l'incessante peregrinare, la vana ricerca, l'incertezza, il timore, la paura, il dolore senza significato e il continuo soffrire. La sua vita formò il tono emotivo della mia vita, diede un colore agli uomini e alle donne che avrei incontrato in futuro, condizionò il mio rapporto con eventi che non erano ancora accaduti, determinò il mio atteggiamento nei riguardi di situazioni e circostanze che dovevo ancora affrontare. Una tristezza di spirito che non m'avrebbe più abbandonato si formò in me nei lenti anni delle continue sofferenze di mia madre, una tristezza che mi avrebbe fatto stare da parte a guardare con sospetto la gioia eccessiva, che m'avrebbe reso consapevole, che m'avrebbe fatto star sempre sul punto di partire, come per sfuggire a un ignoto destino che cercasse di cogliermi.