Ci guardiamo
allo specchio e cerchiamo di capire chi siamo in base a quello che abbiamo
fatto durante la giornata. Prima di dormire siamo soli con noi stessi nel buio
dietro le palpebre. Avrei dovuto fare questo…. Non avrei dovuto parlare in quel
modo… La prossima volta, forse…
Ancora più
difficile poi è capire quando un qualcosa che non si è fatto o detto, andava
fatto o detto…
Davanti allo
specchio siamo giudici e imputati
allo stesso tempo. Non c’è il rischio di sbagliare due volte? Una prima volta quando
abbiamo agito d’istinto (mi sono arrabbiato e….) e poi una volta ancora quando,
dopo aver riflettuto a freddo, ci diciamo “Sì, era proprio necessario alzare la
voce, per far capire che certe cose non si fanno”.
Di questo
passo posso facilmente rimanere imprigionato in una ragnatela di convinzioni
che auto-assolvono i miei comportamenti.
Come uscire
da questo specchio dove io rifletto solo me stesso?
La risposta
sta negli altri.
Se decido di
ascoltarli devo anche essere pronto ad affrontare un giudizio basato su
standard che non sono i miei. Le persone reagiscono alle situazioni con
emozioni e comportamenti diversi dai miei.
Rimaniamo
sull’esempio della rabbia: confrontandomi,
posso osservare che Luca con i suoi figli ha sempre un tono di voce pacato, anche
quando questi hanno fatto qualcosa che non andava. Se sono un insegnante poi,
gli alunni mi diranno, prima o poi, la professoressa di spagnolo, diversamente
da me, non li ha mai puniti cancellandogli la ricreazione.
Sembra di
spostare semplicemente il problema un po’ più in là, dato che anche gli altri
possono sbagliare.
Ma il
beneficio che si ha quando si “studiano” meglio le altre persone è che si comincia
a capire che le scelte, fatte da me giorno per giorno, non sono tracciate in
anticipo, non sono obbligate e, per questo,
almeno quattro o cinque alternative corrono parallele a quell’unica opzione che
mi è venuto naturale adottare su due piedi (alzare la voce e arrabbiarci, nel
nostro caso). Intorno a me, almeno 4 o 5 persone che conosco si sarebbero
comportate in modo diverso.
C’è però un
altro problema: non siamo abituati a ricevere critiche; nemmeno siamo abituati
ad accettare osservazioni; figuriamo chiederle. Perché? Da una parte, una certa
idea di educazione…. dall’altra, l’idea che la vita privata non vada discussa
fuori della porta di casa…. Entrambe le remore, in questo caso, a lungo andare non
mostrano una grande utilità (se è vero quanto finora si è detto). Se abbiamo
paura a criticare, è perché non ci piace essere giudicati. E se non ci piace
essere criticati è perché siamo abituati a sentirci offesi da chi non è
abituato a farlo in maniera costruttiva…. Il meccanismo perverso di “critica e
offesa” è quello che blocca il cambiamento e la crescita.
Confrontarsi
con gli altri non è un cosa che richieda di studiare segretamente le scelte, le
reazioni e i valori altrui rispetto ai problemi che affrontano, come noi, nella
loro vita di mariti, mogli, figli, genitori, lavoratori. Confrontarsi significa
anche, semplicemente, chiedere esplicitamente - Che cosa avresti fatto tu? - , - Pensi
che abbia esagerato? -, - Si sarebbe
potuto dire qualcosa di più? di meno? - eccetera. Il confronto comincia con il
porre una domanda all’altro, fuori
di noi.
Apparentemente
quindi la soluzione ci sarebbe. Si comincerebbe a condividere le proprie
opinioni sul mondo delle relazioni, sui nostri modi di reagire ai comportamenti
e agli atteggiamenti delle altre persone. Che cosa faresti tu se…
- Se tua
figlia ti dice sempre NO, qualunque cosa
tu faccia? –
Un’educazione
che si possa basare su una condivisione dei problemi, su una costruzione delle soluzioni, su una discussione insieme ad altri nostri
pari… diventa un modo perché anche nelle situazioni più difficili non ci si
senta soli, perché non si senta di avere solo noi stessi per noi e per i nostri
figli.