16 ottobre 2012

Solidarietà educative

Ci guardiamo allo specchio e cerchiamo di capire chi siamo in base a quello che abbiamo fatto durante la giornata. Prima di dormire siamo soli con noi stessi nel buio dietro le palpebre. Avrei dovuto fare questo…. Non avrei dovuto parlare in quel modo… La prossima volta, forse…
Ancora più difficile poi è capire quando un qualcosa che non si è fatto o detto, andava fatto o detto…
Davanti allo specchio siamo giudici e imputati allo stesso tempo. Non c’è il rischio di sbagliare due volte? Una prima volta quando abbiamo agito d’istinto (mi sono arrabbiato e….) e poi una volta ancora quando, dopo aver riflettuto a freddo, ci diciamo “Sì, era proprio necessario alzare la voce, per far capire che certe cose non si fanno”.  


Di questo passo posso facilmente rimanere imprigionato in una ragnatela di convinzioni che auto-assolvono i miei comportamenti.
Come uscire da questo specchio dove io rifletto solo me stesso?

La risposta sta negli altri.
Se decido di ascoltarli devo anche essere pronto ad affrontare un giudizio basato su standard che non sono i miei. Le persone reagiscono alle situazioni con emozioni e comportamenti diversi dai miei. 
Rimaniamo sull’esempio della rabbia: confrontandomi, posso osservare che Luca con i suoi figli ha sempre un tono di voce pacato, anche quando questi hanno fatto qualcosa che non andava. Se sono un insegnante poi, gli alunni mi diranno, prima o poi, la professoressa di spagnolo, diversamente da me, non li ha mai puniti cancellandogli la ricreazione.

Sembra di spostare semplicemente il problema un po’ più in là, dato che anche gli altri possono sbagliare.
Ma il beneficio che si ha quando si “studiano” meglio le altre persone è che si comincia a capire che le scelte, fatte da me giorno per giorno, non sono tracciate in anticipo, non sono obbligate e, per questo, almeno quattro o cinque alternative corrono parallele a quell’unica opzione che mi è venuto naturale adottare su due piedi (alzare la voce e arrabbiarci, nel nostro caso). Intorno a me, almeno 4 o 5 persone che conosco si sarebbero comportate in modo diverso.

C’è però un altro problema: non siamo abituati a ricevere critiche; nemmeno siamo abituati ad accettare osservazioni; figuriamo chiederle. Perché? Da una parte, una certa idea di educazione…. dall’altra, l’idea che la vita privata non vada discussa fuori della porta di casa…. Entrambe le remore, in questo caso, a lungo andare non mostrano una grande utilità (se è vero quanto finora si è detto). Se abbiamo paura a criticare, è perché non ci piace essere giudicati. E se non ci piace essere criticati è perché siamo abituati a sentirci offesi da chi non è abituato a farlo in maniera costruttiva…. Il meccanismo perverso di “critica e offesa” è quello che blocca il cambiamento e la crescita.

Confrontarsi con gli altri non è un cosa che richieda di studiare segretamente le scelte, le reazioni e i valori altrui rispetto ai problemi che affrontano, come noi, nella loro vita di mariti, mogli, figli, genitori, lavoratori. Confrontarsi significa anche, semplicemente, chiedere esplicitamente  - Che cosa avresti fatto tu? - , - Pensi che  abbia esagerato? -, - Si sarebbe potuto dire qualcosa di più? di meno? - eccetera. Il confronto comincia con il porre una domanda all’altro, fuori di noi.

Apparentemente quindi la soluzione ci sarebbe. Si comincerebbe a condividere le proprie opinioni sul mondo delle relazioni, sui nostri modi di reagire ai comportamenti e agli atteggiamenti delle altre persone. Che cosa faresti tu se…
- Se tua figlia ti dice sempre NO, qualunque cosa tu faccia? –
Un’educazione che si possa basare su una condivisione dei problemi, su una costruzione delle soluzioni, su una discussione insieme ad altri nostri pari… diventa un modo perché anche nelle situazioni più difficili non ci si senta soli, perché non si senta di avere solo noi stessi per noi e per i nostri figli.