30 maggio 2015

Karl Popper e la Psicanalisi

           “…in Europa abbiamo frequentemente udito dei giudizi sulla psicoanalisi espressi da persone che non conoscevano assolutamente nulla della sua tecnica e che tanto meno l'avevano applicata, e che pure pretendevano, sprezzantemente, che dimostrassimo l'esattezza dei nostri risultati. Fra queste persone ve ne sono alcune non prive di dimestichezza, in altri campi, coi metodi dell'operare scientifico […] 

E' compito della psicoanalisi portare il materiale rimosso della vita psichica al riconoscimento della coscienza, e chiunque la giudichi, reca in sé tali rimozioni, forse solo a stento trattenute. Essa quindi mobiliterà in lui le stesse resistenze che operano nel paziente; la resistenza in questione riuscirà facilmente a camuffarsi sotto le vesti di un rifiuto razionale, e a suscitare argomentazioni simili a quelle da cui noi cerchiamo di salvaguardare i pazienti, applicando le regole fondamentali della psicoanalisi. Il fatto è che non è difficile ravvisare nei nostri avversari lo stesso affievolimento del giudizio, prodotto dalla emotività, che possiamo quotidianamente osservare nei nostri pazienti.”

                                                                                                                                      (S. Freud, Terza conferenza, 1909, Boston)



         “Fu durante l'estate del 1919 che cominciai a sentirmi sempre più  insoddisfatto di queste tre teorie: la teoria marxista della storia, la psicanalisi e la psicologia individuale; e cominciai a dubitare delle loro pretese di scientificità. Il mio problema dapprima assunse, forse, la semplice forma: “che cosa non va nel marxismo, nella psicanalisi e nella psicologia individuale? Perché queste dottrine sono così diverse dalle teorie fisiche, dalla teoria newtoniana, e soprattutto dalla teoria della relatività?” [...]
        Riscontrai che i miei amici, ammiratori di Marx, Freud e Adler, erano colpiti da alcuni elementi comuni a queste teorie e soprattutto dal loro apparente potere esplicativo. Esse sembravano in grado di spiegare praticamente tutto ciò che accadeva nei campi cui si riferivano. Lo studio di una qualunque di esse sembrava avere l'effetto di una conversione o rivelazione intellettuale, che consentiva di levare gli occhi su una nuova verità, preclusa ai non iniziati. Una volta dischiusi in questo modo gli occhi, si scorgevano ovunque delle conferme: il mondo pullulava di verifiche della teoria. Qualunque cosa accadesse, la confermava sempre. La sua verità appariva perciò manifesta: e, quanto agli increduli, si trattava chiaramente di persone che non volevano vedere la verità manifesta, che si rifiutavano di vederla, o perché era contraria ai loro interessi di classe, o a causa delle loro repressioni tuttora “non-analizzate” e reclamanti ad alta voce un trattamento clinico.
L'elemento più caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante delle conferme, delle osservazioni che “verificavano” le teorie in questione; e proprio questo punto veniva costantemente sottolineato dai loro seguaci. Un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia; non soltanto per le notizie, ma anche per la loro presentazione – rilevante i pregiudizi classisti del giornale – e soprattutto, naturalmente, per quello che non diceva. Gli analisti freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro “osservazioni cliniche”. Quanto ad Adler restai molto colpito da un'esperienza personale. Una volta, nel 1919, gli riferii di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma che egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto il bambino. Un po' sconcertato, gli chiesi come poteva essere così sicuro. “A causa della mia esperienza di mille casi simili” egli rispose; al che non potei trattenermi dal commentare: “E con questo ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi”. 
Mi riferivo al fatto che le sue precedenti osservazioni potevano essere state non molto più valide di quest'ultima; che ciascuna era stata a sua volta interpretata alla luce della “esperienza precedente”, essendo contemporaneamente considerata come ulteriore conferma. Conferma di che cosa, mi domandavo? Non certo più che del fatto che un caso poteva essere interpretato alla luce della teoria. Ma questo significava molto poco, riflettevo, dal momento che ogni caso concepibile poteva essere interpretato alla luce della teoria di Adler, o parimenti di quella di Freud. Posso illustrare questa circostanza per mezzo di due esempi assai differenti di comportamento umano: quello di un uomo che spinge un bambino nell'acqua con l'intenzione di affogarlo; e quello di un uomo che sacrifica la propria vita nel tentativo di salvare il bambino. Ciascuno di questi casi può essere spiegato con la stessa facilità in termini freudiani e in termini adleriani. Per Freud, il primo uomo soffriva di una repressione, per esempio, di una qualche componente del suo complesso di Edipo, mentre il secondo uomo aveva raggiunto la sublimazione. Per Adler, il primo soffriva di sentimenti di inferiorità determinanti forse il bisogno di provare a se stesso che egli osava compiere un simile delitto, e lo stesso accadeva al secondo uomo, che aveva bisogno di provare a se stesso di avere il coraggio di salvare il bambino. Non riuscivo a concepire alcun comportamento umano che non potesse interpretarsi nei termini dell’una o dell'altra teoria. Era precisamente questo fatto – il fatto che dette teorie erano sempre adeguate e risultavano sempre confermate – ciò che agli occhi dei sostenitori costituiva l'argomento più valido a loro favore. Cominciai a intravedere che questa loro apparente forza era in realtà il loro elemento di debolezza.


Nel caso della teoria di Einstein, la situazione era notevolmente differente. Si prenda un esempio tipico – la previsione einsteiniana, confermata proprio allora dai risultati della spedizione di Eddington. La teoria einsteiniana della gravitazione aveva portato alla conclusione che la luce doveva essere attratta dai corpi pesanti come il sole, nello stesso modo in cui erano attratti i corpi materiali. Di conseguenza, si poteva calcolare che la luce proveniente da una lontana stella fissa, la cui posizione apparente fosse prossima al sole, avrebbe raggiunto la terra da una direzione tale da fare apparire la stella leggermente allontanata dal sole; o, in altre parole, si poteva calcolare che le stelle vicine al sole sarebbero apparse come se si fossero scostate un poco dal sole ed anche fra di loro. Si tratta di un fatto che non può normalmente essere osservato, poiché quelle stelle sono rese invisibili durante il giorno dall'eccessivo splendore del sole: nel corso di un'eclissi è tuttavia possibile fotografarle. Se si fotografa la stessa costellazione di notte, è possibile misurare le distanze sulle due fotografie, e controllare così l'effetto previsto.
          Ora, la cosa che impressiona in un caso come questo è il rischio implicito in una previsione del genere. Se l'osservazione mostra che l’effetto previsto è del tutto assente, allora la teoria risulta semplicemente confutata. Essa è incompatibile con certi possibili risultati dell’osservazione – di fatto, con i risultati che tutti si sarebbero aspettati prima di Einstein. Si tratta di una situazione completamente differente da quella prima descritta, in cui emergeva che le teorie in questione erano compatibili con i più disparati comportamenti umani, cosicché era praticamente impossibile descrivere un qualsiasi comportamento che non potesse essere assunto quale verifica di tali teorie.”

(K. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, 1972, pagg. 63-66)


Per Popper la Psicanalisi non è scienza empirica in quanto non cerca di produrre proposizioni che siano, in linea di principio, falsificabili; semplicemente, quindi, non ricerca un confronto spassionato coi dati (la realtà empirica) ma si accontenta delle proprie interpretazioni delle situazioni, delle proprie letture.
La Psicanalisi presenta procedure di verificabilità che secondo Popper sono ingenue (gli esempi alla fine del brano su come Adler trova conferma alla sua teoria) e dunque non basta la verificabilità per definire ciò che è scienza empirica se anche psicanalisi e marxismo possono venir presentate come facilmente verificabili (confermabili); è la falsificabilità che contraddistingue le teorie che sono davvero scientifiche.
Falsificabile è una teoria che produce previsioni confrontabili coi dati di fatto facilmente e da tutti gli specialisti.

Una teoria scientifica: 
è’ un insieme di proposizioni / leggi che, spesso in termini matematici, descrivono delle regolarità, delle proporzionalità, dei rapporti di causa-effetto esistenti tra eventi e che così spiegano il funzionamento di qualche aspetto della Natura.

Una teoria scientifica organizza e dà significato ai dati. I dati non parlano da soli. Con le parole di J. Poincarè: “La scienza si costruisce con i fatti come una casa si costruisce con le pietre; ma un accumulo di fatti non è scienza più di quanto un mucchio di pietre non sia una casa.” Come le pietre hanno bisogno di un progetto o un architetto per diventare una casa, così i fatti hanno bisogno di un teorico che dia loro una struttura e che ne mostri la relazione con il piano più generale. Così una teoria dà significato ai fatti, fornisce a questi una cornice di riferimento, attribuisce più importanza ad alcuni piuttosto che ad altri, integra i dati esistenti. Una teoria riassume e organizza le osservazioni, permette di evitare di far riferimento continuo ai dati originari da cui ha preso origine. Così è più facile parlare di “meccanismi di difesa” che non riferire tutti i singoli comportamenti che questa espressione sottende.

Con le stesse pietre si possono fare case diverse, e in effetti due teorie possono assegnare agli stessi dati significati diversi, organizzandoli in maniera alternativa, enfatizzando certi comportamenti umani e non altri, inferendo costrutti ipotetici differenti. Ad esempio la fisica aristotelica e la fisica newtoniana spiegavano (giustificavano) entrambe la tendenza di una pietra a cadere verso il suolo ma inserendo il fenomeno in due quadri teorici diversi, attribuendovi cause diverse. L’occhio dello scienziato naturale del IV secolo a.C. e l’occhio newtoniano del Settecento scorgono significati diversi dietro allo stesso dato.

In un secondo momento, una volta accettata dalla comunità scientifica, una volta affermatasi come valida (o “vera”), una certa teoria funziona anche come strumento per guidare l’osservazione di fatti ulteriori che non erano stati considerati nel momento della creazione della teoria stessa. Affermazioni astratte predicono come ci si può aspettare che fatti nuovi abbiano luogo. Fenomeni nuovi possono essere letti alla luce di una tale teoria. La fisica newtoniana, per esempio, fu applicata con successo per fornire interpretazioni e descrizioni allo studio dei fluidi, con pochi adattamenti mantenendo come base gli stessi concetti (massa, forza, leggi della dinamica, energia cinetica, …)

(adattato da P. Miller, Teorie dello sviluppo psicologico, Il Mulino, p. 18-19)


Teorie verificabili o falsificabili

         Una volta costruita o elaborata, una teoria dunque rimane aperta al confronto con dati empirici nuovi. Nulla vieta inoltre che sia possibile trovare una falla in essa, un controesempio, e così mostrare che la spiegazione e i meccanismi che essa propone non possono essere davvero quelli giusti. La conferma, invece, quando una previsione dedotta dalla teoria si verifica o si attaglia ai fatti nuovi, è chiamata da Popper “corroborazione”. E ogni teoria anche quella più solida, rimane per il futuro vulnerabile a smentite: si tratta del fallibilismo della scienza, altro termine popperiano.  

Ritornando alla Psicanalisi, la pretesa era che osservazioni singolari potessero verificare una costruzione teorica di portata molto ampia. Si consideri il confronto fatto da Popper nel brano tra Psicanalisi e teoria della Relatività rispetto alla questione del loro rapporto coi fatti e con le previsioni/deduzioni che tali teorie consentono.
Nel caso della psicanalisi,  si scelgono dal sistema teorico alcune sue specificazioni, alcuni degli assunti che lo costituiscono: si può prendere il costrutto della sublimazione e un altro fenomeno, per esempio la repressione quale meccanismo di gestione dell’aggressività. Un’unica teoria psicanalitica consente ora, tramite due suoi concetti teorici centrali, due previsioni relative al comportamento umano: a) l’uomo X spingerà il bambino nell’acqua con l’intenzione di affogarlo per via di una repressione dell’aggressività di cui perde il controllo oppure b) l’uomo X salverà il bambino perché sta sublimando in un atto eroico la sua distruttività (vissuta in tempi infantili…). Ebbene la teoria psicanalitica qui produce effettivamente due previsioni molto concrete e controllabili. Peraltro si tratta di corsi d’azione opposti negli esiti. Il verificarsi di una delle due opzioni è dunque certo. Pur contrastanti, possono essere inquadrate come entrambe “previste” dalla teoria e dunque come conferme/verifiche di essa.
Diverso il caso della teoria di Einstein: la previsione era univoca, cioè la stella Y sarebbe divenuta visibile per via dell’interferenza della gravità sulla radiazione luminosa. Non si aveva una seconda ipotesi derivata anch’essa dalla Relatività che prevedesse, con qualche diversa specificazione teorica (“l’interferenza della gravità può venir schermata o attenuata qualora …”) , che la stella Y potesse anche restare invisibile. 
E’ questa univocità della previsione, più ancora che la sua tangibilità, direttamente derivata dalla teoria che rende la della Relatività una teoria scientifica: falsificabile da uno degli esiti possibili dei suoi controlli.



Infine, Freud raccontato da Jung:

"Ci fu anche qualche altra cosa che mi parve significativa in quel primo incontro, e che aveva a che fare con cose che potei meditare e capire solo dopo la fine della nostra amicizia. Non era possibile non accorgersi che a Freud stesse moltissimo a cuore la sua teoria della sessualità: quando ne parlava il suo tono si faceva stringente, quasi ansioso, e svaniva completamente il suo atteggiamento critico e scettico. I segni di una strana emozione, la cui causa non mi era chiara, si manifestavano sul suo volto. Avevo la netta sensazione che per lui la sessualità fosse una specie di “numinosum”: e questa mia impressione venne confermata da una conversazione che ebbe luogo circa tre anni dopo, nel 1920, di nuovo a Vienna. 
Ho ancora vivo il ricordo di ciò che Freud mi disse: “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità. Questa è la cosa più importante. Vedete, dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo.” Me lo disse con passione, col tono di un padre che dica: “E promettetemi solo questo, figlio mio, cha andrai in chiesa tutte le domeniche!”
Con una certa sorpresa gli chiesi: “Un baluardo? Contro che cosa?” Al che replicò: “Contro la marea nera di fango” e qui esitò un momento, poi aggiunse “dell’occultismo”. Innanzi tutto erano le parole “baluardo” e “dogma” che mi avevano allarmato; perché un dogma, e cioè un’incrollabile dichiarazione di fede si stabilisce solo quando si ha lo scopo di soffocare i subbi una volta per sempre. E questo non ha nulla a che fare col giudizio scientifico, ma riguarda solo un personale impulso di potenza.
Fu un colpo, che inferse una ferita mortale alla nostra amicizia. Sapevo che non avrei mai potuto accettare una cosa simile. Ciò che Freud pareva intendere per “occultismo” era praticamente tutto ciò che filosofia, religione, e anche la scienza allora nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell’ anima. Secondo me la teoria sessuale era “occulta”, e cioè un’ipotesi non provata, esattamente allo stesso modo di molte altre concezioni. Pensavo che una verità scientifica fosse una ipotesi soddisfacente per il momento, ma non un articolo di federe valido per sempre.”

(C.J. Jung, Sogni, ricordi, riflessioni. Bompiani, p. 190-191)

24 maggio 2015

Aristotele - Etica Nicomachea, Libro I, Capitolo VIII

      ... Poiché i beni sono stati divisi in tre gruppi, e poiché gli uni sono stati chiamati beni esteriori, gli altri beni dell’anima e beni del corpo, noi affermiamo che quelli dell’anima sono beni nel senso più proprio e nel grado più elevato e poniamo tra i beni dell’anima le sue specifiche azioni e attività. Perciò la nostra affermazione sarà giusta, almeno se si segue questa opinione che è antica ed ha ricevuto il consenso dei filosofi. Ed è corretto anche dire che il fine è costituito da certe azioni e attività, poiché così esso viene a trovarsi tra i beni dell’anima e non tra quelli esteriori. 

      S’accorda poi con la nostra definizione l’opinione che l’uomo felice è quello che vive bene ed ha successo: infatti la felicità è stata definita, pressappoco, come una specie di vita buona e di successo. È manifesto che gli elementi della felicità di cui si va in cerca si ritrovano tutti in quanto abbiamo detto. Infatti, alcuni ritengono che la felicità consista nella virtù, altri nella saggezza, altri in un certo tipo di sapienza; per altri, poi, essa è o tutte queste cose insieme o una di queste in unione col piacere, o comunque non senza piacere; altri, infine, vi aggiungono anche la disponibilità di beni esteriori. Di alcune di queste opinioni ci sono sostenitori numerosi e antichi, di altre pochi ma famosi: è ragionevole pensare che né gli uni né gli altri siano completamente in errore, ma che essi colgano nel segno almeno in un punto, o anche nella maggior parte dei punti. La nostra definizione dunque è in accordo con coloro che identificano la felicità con la virtù o con una virtù particolare, poiché l’attività secondo virtù è propria di una determinata virtù. 

      Certo non è piccola la differenza se si pensa che il sommo bene consista in un possesso oppure in un uso, cioè in una disposizione oppure in una attività. Può essere, infatti, che la disposizione ci sia, ma non compia alcun bene, come in chi dorme o in qualche altro modo è inattivo; ma per l’attività ciò non è possibile, giacché essa necessariamente agirà ed avrà successo. Come nelle Olimpiadi non sono i più belli e i più forti ad essere incoronati, ma quelli che partecipano alle gare (infatti i vincitori sono tra questi), così nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello e buono coloro che agiscono. La loro vita poi è per se stessa piacevole. Infatti il godere è proprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui si dice che è amante: per esempio, un cavallo per l’amante dei cavalli, uno spettacolo per l’amante degli spettacoli; allo stesso modo le cose giuste per l’amante della giustizia, e, in genere, le azioni conformi alla virtù per l’amante della virtù. 

     Insomma, per la massa degli uomini le cose piacevoli sono in conflitto perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli le cose che per natura sono piacevoli: tali sono le azioni secondo virtù, cosicché esse sono piacevoli sia per questi uomini sia per se stesse. La vita di costoro, dunque, non ha bisogno del piacere come di qualcosa di accessorio, ma ha il piacere in se stessa. Oltre a quanto s’è detto, infatti, non è buono chi non compie con piacere le azioni buone: infatti nessuno direbbe giusto chi non compie con piacere azioni giuste, né liberale chi non compie con piacere azioni liberali: lo stesso vale per le altre azioni buone. E se è così, le azioni secondo virtù saranno piacevoli per se stesse. Ma saranno di certo anche buone e belle, e in massimo grado piacevoli buone e belle, se è vero che giudica bene di loro l’uomo di valore: ed egli giudica come abbiamo detto. Dunque, la felicità è insieme la cosa più buona, la più bella e la più piacevole, qualità queste, che non devono essere separate come fa l’iscrizione di Delo:

"La cosa più bella è la più grande giustizia;
la cosa più buona è la salute;
ma la cosa per natura più piacevole è raggiungere ciò che si desidera".
      
        Infatti, tutte queste qualità appartengono alle migliori attività: e queste, o una sola tra loro, la migliore, noi diciamo essere la felicità. 
     È manifesto tuttavia che essa ha bisogno, in più, dei beni esteriori, come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si è privi di risorse materiali. Infatti, molte azioni si compiono per mezzo degli amici, della ricchezza, del potere politico, come per mezzo di strumenti. coloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la felicità: per esempio, se mancano di nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi è affatto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza figli; e certo lo è meno ancora chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire.     

      
     Come dunque abbiamo detto, la felicità sembra aver bisogno anche di una simile prosperità esteriore; ragion per cui alcuni identificano la felicità con la fortuna, mentre altri l’identificano con la virtù.


(Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, Capitolo 8)

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L'esercizio di ciò che costituisce la propria caratteristica più specifica non può non produrre piacere: pertanto la felicità di cui si è alla ricerca deve comprendere anche il piacere. Essa infine deve presupporre anche i beni esteriori, quali la ricchezza, il potere politico, gli amici e persino l'appartenenza ad un buon casato, il possesso di una buona prole e il disporre di una certa bellezza fisica: tutte cose senza di cui non si può essere veramente felici.

E. Berti, Profilo di Aristotele, Edizioni Studium, p. 254