30 aprile 2016

George Orwell, su Realismo e Idealismo a proposito del post-berlusconismo e la realtà di Matteo Renzi


Per questo ora sei qui. Sei qui perché hai mancato di umiltà, di disciplina verso te stesso. 
Tu non ha voluto fare l'atto di sottomissione che è il prezzo della saggezza. Hai preferito essere un pazzo, essere la minoranza di uno. Solo le menti disciplinate possono vedere la realtà; tu credi che la realtà sia quacosa di oggettivo, di esterno, che esiste per proprio conto. E credi anche che la natura stessa della realtà sia evidente per se stessa. Così se ti persuadi che stai pensando di vedere qualcosa, credi che tutti gli altri vedano quella stessa cosa. 
Ma io ti dico che la realtà non è esterna. La realtà esiste nella mente degli uomini e in nessun altro luogo. NON nelle menti individuali, in questa o in quella, che possono invece commettere errori: ma solo nella mente del Partito, collettiva e immortale. Qualsiasi cosa il partito ritiene vera, è vera. E' impossibile vedere la realtà se non attraverso gli occhi del Partito. 
Questo devi re-imparare. Ciò rende necessario un atto di autodistruzione, uno sforzo di volontà. Ti devi umiliare, prima di diventare intelligente.
                                                                                                 (G. Orwell, 1984, Mondadori, p. 261)

23 aprile 2016

Maria Montessori: la filosofia delle cose

[...]
   Se noi consideriamo però l'"ordine medio" non come fine ma come punto di partenza, possiamo avere l'intuizione che i bambini osservano spontaneamente assai più di quanto le "lezioni di cose" sogliono spiegare: purché, naturalmente,, i bambini siano lasciati liberi di osservare secondo il loro istinto e non siano ammalati d'inibizione organica, cioè inibiti dalla paura d'agir da soli.


   Io dico "intuizione" perché, pur non avendo metodicamente studiato le manifestazioni infantili spontaneee, si può empiricamente comprendere tale verità. Il bambino ha "una tendenza vitale" a esplorare l'ambiente altrettanto grande quanto la tendenza ad ascoltare il linguaggio: infatti deve conoscere il mondo esterno e deve imparare a parlare per un istinto impetuoso. E', diciamo, un periodo sensibile della sua vita, che gli fa osservare così le cose dell'ambiente, come i suoni la voce umana.
   Non c'è dunque bisogno di illustrargli gli oggetti, ma solo di non attutire l'istinto di osservazione che la natura gli ha dato.
   Se vogliamo aiutarlo, noi dobbiamo porci in un grado di maggior "elevazione". Dobiamo dargli più di quanto egli potrebbe con le sue sole forze.
   Mi sia permessa un'affermazione ardita: noi dobbiamo dargli la filosofia delle cose.

(da La scoperta del bambino. Capitolo XIII: Elevazione, Garzanti, 1950)

21 aprile 2016

Recensione a: Psicologia (autore P. Crepet, editore Einaudi) per il primo biennio del Liceo Scienze Umane

   La Psicologia nel biennio del Liceo Scienze Umane, secondo le Indicazioni Nazionali gelminiane, deve condividere il monte ore settimanale con la Pedagogia o meglio, con la Storia della Pedagogia. E' inevitabile quindi che la materia non possa essere affrontata con il dovuto approfondimento. Peraltro da qui a "mandare tutto in vacca" ce ne passa. Infatti con un libro di testo come questo non si capisce a cosa si punti: forse solo a far fare quattro chiacchiere agli studenti insieme al loro insegnante, per chiarire all'infinito "qual è la loro idea di psicologia"...
   Due facciate sono dedicata all'Attenzione eppure si poteva sfruttare l'argomento per introdurre la dicotomia (tornata tra l'altro in auge anche con il recente libro di Daniel Kahneman "Pensieri lenti, pensieri veloci") tra processi automatici e processi volontari. Occasione persa eppure l'argomento era più che approcciabile.
   Meglio per la Memoria: qui almeno abbiamo una traccia da cui il docente può partire per far capire che cos'è il cognitivismo e che cosa abbia fatto per la crescita della conoscenza dei processi cognitivi. Giusto un accenno a Bartlett e alla Loftus. Nessun utile esercizio proposto per far sperimentare ai ragazzi che cosa significhi ricordare una lista di parole, rievocare o riconoscere, la memoria prospettica, la differenza tra ricordare parole concrete o astratte. Manca ovviamente poi qualunque collegamento con la neuropsicologia in modo da non dare alcuna idea allo studente di dove vada la ricerca oggi in questo campo. Quindi anche qui, troppo poco e troppo in fretta.
   Dieci paginette sull'intelligenza: utilizzabili comunque dallo studente volenteroso per andare su wikipedia e cercare esempi della scale Wechsler per capire criticamente che cosa si misura con un test di intelligenza. Non si dica che lo studente di primo anno non ne sarebbe interessato. Nessun riferimento alla curva normale, nemmeno un accenno descrittivo. Viene però introdotto Piaget all'interno dello stesso capitolo: è certo che siamo al bienno ma una paginetta in tutto, dedicata al fondatore della psicologia dell'età evolutiva, pare un po' poco. Evidentemente per Crepet (a cui Einaudi attribuisce la paternità del libro) non è abbastanza interessante: meglio infatti dedicare un capitolo allo sviluppo psicosessuale secondo Sigmund Freud.
   Ben quattro capitoli sulle relazioni educative (Bambini  e adulti, Emozioni a scuola, Fare con i bambini, Insegnanti e allievi): cosa che può anche stimolare un ragazzo di 14/15 anni a riflettere sulla propria esperienza nel sistema scolastico... Quello che manca però è una minima presentazione dei contenuti più assodati della tradizione scientifica (emozioni fondamentali, sviluppo emotivo,...). La questione è che ostinarsi a non esemplificare mai nulla, non citando né descrivendo mai nessuna ricerca importante, finisce per ostacolare la comprensione dei concetti presentati solamente in forma verbale (e ipersemplificata, come detto). 
   Troppo in fretta e superficiale anche la presentazione di autori importanti della psicologia clinica che hanno trattato le relazioni educative e i processi di cambiamento (Rogers, Kelly ecc...). Il testo riesce a scontenare quindi sia i fautori della psicologia come scienza sia i sostenitori della psicologia come arte ermeneutica. Una così grande superficialità nel raccontare la Psicologia di entrambi i versanti non giova ai ragazzi, questo è sicuro. 
   Per finire, assenti i collegamenti esterni a risorse online ormai insostituibili quali i filmati di youtube che mostrano, spesso anche con filmati originali, i più famosi esperimenti della storia della psicologia. E siamo nell'era del libro digitale, come piace ripetere a editori e ministri.
Dunque un testo che non presenta un sapere aggiornato riguardo alle principale aree della psicologia (sociale, cognitivista, infantile, neuroscienza) e che costituisce una base pericolosamente inadeguata allo sviluppo delle conoscenze e competenze previste nel triennio successivo. Lo studente curioso deve quindi confidare nella preparazione e iniziativa del docente o nello studio domestico davanti al computer.
    Evidentemente agli autori, come peraltro anche agli estensori delle IN, non è nota la differenza tra il semplificare i contenuti di una disciplina e l'ignorarli. 

17 aprile 2016

Recensione a: Scienze Umane. Corso integrato (di G. Chiosso e P. Crepet, editore Einaudi) per il triennio del Liceo Scienze Umane

     Il volume copre le materie del triennio del Liceo Scienze Umane ovvero Antropologia, Sociologia Psicologia e Storia della Pedagogia (davvero difficile chiamarla Pedagogia e ancor meno, Scienze dell' Educazione). 
   Molti sono i temi trattati con taglio prevalentemente sociologico/sociale. Ridotti i contenuti classici della psicologia generale, sociale e dello sviluppo: come peraltro da Indicazioni Nazionali gelminiane.

   Il testo ad ogni modo è ben scritto ma dal punto di vista dei contenuti si trova davvero troppo e detto troppo in fretta. Sono assenti le schematizzazioni, le mappe, le tabelle, le statistiche, i dati, che soprattutto per Sociologia avrebbero aiutato lo studente: ad esempio, se parlo del fenomeno dell'urbanizzaaione potrei inserire delle tabelle con indicate le popolazioni di alcune città europee nel corso dell'800 e del 900. Ma no, troppo concreto forse. E' bandito infatti ogni contributo che non sia puramente verbale, ancora una volta come da Indicazioni Nazionali. 

   Spiacevole poi non trovare nemmeno nell'espansione online alcun testo originale di autori importantissimi: Piaget, Fromm, Tulving, Kohler, Simmel, Weber, Durkheim, insomma nessuno. L'elenco dei testi non disponibili allo studente fa peraltro bella mostra di sè all'inizio di ogni sezione; una vera beffa che rende completamente monco il volume. Risulta quindi che la mole di informazioni contenute nel testo è decisamente filtrata dall'opera di sintesi dei curatori/autori. Proprio per questo si può dire che si tratta di un manuale che ha la pretesa di approcciarsi alle SU in maniera aggiornata, integrata e per temi ma che alla fine trascura anche la dimensione fondamentale e maggiormente "liceale" (nella mente del Ministero) della lettura e della comprensione delle fonti: didatticamente inefficace.

16 aprile 2016

Maria Montessori: la maestra e le parole nella Casa dei Bambini

  La maestra fa un quasi timido tentativo di avvicinamento al bambino che ella presume pronto a ricevere la lezione. Si siede al suo fianco e reca un oggetto che ella crede capace di interessarlo.
In questo consiste la preparazione della maestra. Ella dovrebbe essere preparata a tentare soltanto esperimenti. La risposta che ella attende dal bambino è che sorga in lui un’attività che lo inciti ad usare il materiale che gli è stato presentato.
  La lezione è un appello all’attenzione. Se l’oggetto risponde agli intimi desideri del bambino e rappresenta qualcosa che li soddisferà, incita il bambino a una prolungata attività, poiché egli se ne rende padrone e continua ad usarlo.
  Le parole non sono sempre necessarie; molto spesso basta mostrare come l’oggetto va usato. 

Ma quando è necessario parlare e iniziare il bambino all’uso del materiale di sviluppo e cultura, la caratteristica della lezione dev’essere la brevità; la perfezione consiste nella ricerca del minimo necessario e sufficiente.
Una lezione si avvicina alla perfezione quanto maggiore è il numero delle parole che riusciamo a risparmiare.
Cura particolare si deve dedicare, preparando la lezione, a contare e scegliere le parole che si debbono usare.


  Un’altra caratteristica della lezione è la sua semplicità: essa dovrebbe esser priva di tutto ciò che non è assoluta verità. Che la maestra non debba perdersi in vuote parole è compreso nella prima qualità; il secondo avvertimento è perciò una caratteristica del primo e cioè, le parole contate dovrebbero essere semplici al massimo grado e rappresentare l’esatta verità.
  La terza caratteristica della lezione è la sua obiettività; il che significa che la personalità della maestra scompare e in evidenza rimane solo l’oggetto su cui si desira che si concentri l’attenzione del bambino. La breve e semplice lezione non è, per la massima parte, che una spiegazione dell’oggetto e dell’uso che il bambino può farne.
  La maestra prenderà nota se il bimbo si interessa o non s’interessa all’oggetto, in che modo egli dimostra il proprio interesse, per quanto tempo, ecc. e si guarderà bene dal forzare il bambino che non sembra interessato a ciò che gli offre. Se poi la lezione, preparata col dovuto rispetto alla brevità, semplicità e verità, non è compresa dal bambino come spiegazione dell'oggetto, occorre dare alla maestra due avvertimenti: primo, non insistere nel ripeter la lezione; secondo, trattenersi dal far capire al bambino che egli ha commesso un errore o non ha capito, perché questo potrebbe arrestare per lungo tempo l'impulso ad agire, che costituisce tutto il fondamento del progresso.
   
   Supponiamo che la maestra desideri insegnare al bambino i due colori rosso e blu. Ella vuol attrarre l’attenzione del bambino sull’oggetto e gli dice  - Guarda, sta’ attento –. Se mira  a insegnargli il nome dei colori, ella dice, mostrando il rosso - Questo è rosso –, alzando la voce e pronunciando la parola rosso molto lentamente. Poi gli mostra l’altro colore dicendo – Questo è blu –. Per accertarsi  se il bambino abbia o non abbia capito, gli dice: - Dammi il rosso, dammi il blu – Supponiamo che il bambino commetta un errore; la maestra non replica né insiste; sorride e mette via i colori.
  Generalmente gli insegnanti si meravigliano di tanta semplicità; di solito essi dicono - Tutti san fare questo -. In verità siamo di nuovo di fronte a qualcosa di simile all’uovo di Colombo; ma il  fatto sta che nessuno lo sa fare. In pratica, è molto difficile valutare le proprie azioni, tanto più nel caso di comuni maestri, preparati secondo i vecchi sistemi. Essi opprimono il bambino con un diluvio di parole inutili e di racconti inesatti.

   Ad esempio se ci riportiamo al caso ora citato, una maestra comune sarebbe ricorsa all’insegnamento collettivo, attribuendo eccessiva importanza alla semplice cosa che ella deve insegnare e costringendo così tutti i bambini a seguirla, quando forse non tutti erano inclini a farlo. Presumibilmente ella comincerebbe una lezione così: - Bambini potete indovinare ciò che ho in mano? – Ella sa benissimo che i bambini non possono indovinare ce desta la loro attenzione con una insincerità. Poi, probabilmente direbbe: - Bambini, date mai uno sguardo al cielo? L’avete mai visto? L’avete mai guardato di notte, quando è tutto scintillante di stelle? No? Guardate il mio grembiule; sapere che colore è? Vi pare che sia dello stesso colore del cielo? Orbene guardate il colore che ho qui: è lo stesso  di quello del cielo e del mio grembiule: è blu. Guardatevi attorno; vedete altre cose che siano blu? E sapete di che colore sono le ciliegie? E i carboni ardenti? - ecc. ecc. 
   Così la mente del bambino dopo la confusione dell’indovinare è sopraffatta da un cumulo di idee: il cielo i grembiuli, le ciliegie, ecc.; e in questa confusione gli è difficile identificare il soggetto, lo scopo della lezione, che è quello di riconoscere i due colori rosso e blu. Inoltre un tale importante atto di selezione è impossibile per la mente del bambino specialmente considerando che egli non è capace di seguire un lungo discorso. 
[...]

   Ottenere una lezione semplice da una maestra preparata secondo i soliti metodi è ben difficile. Ricordo che, dopo molte spiegazioni in merito, chiesi a una delle mie maestre d'insegnare, usando gli incastri, la differenza tra un quadrato e un triangolo. Essa doveva semplicemente adattare un quadrato e un triangolo di legno in ispazi vuoti ad essi corrispondenti, far tracciare al bambino, col dito, i contorni degli incastri e dei corrispondenti spazi vuoti e dire - Questo è un quadrato -, - Questo è un triangolo -. La maestra, facendogli toccare il contorno, cominciò a dire - Questa è una linea, un'altra, un'altra, un'altra; sono quattro; conta ora, con le tue dita, quante sono. E gli angoli? Conta gli angoli tastali col dito, premili; anch'essi sono quattro. Guardalo attentamente: è un quadrato! - 
   Io corressi la maestra osservandole che non insegnava a riconoscere la forma, ma dava al bambino l’idea di lati, angoli, numeri: cosa ben diversa da quella che doveva insegnare. Ma ella si difese dicendo – E’ la stessa cosa -. Non è la stessa cosa: è l’analisi geometrica e matematica della cosa. Si potrebbe aver afferrato l’idea della forma quadrata senza saper contare fino a quattro e perciò senza poter trovare il numero dei lati e degli angoli. Lati e angoli sono astrazioni, che non esistono di per se stesse; ciò che esiste è un pezzo di legno di una determinata forma. Le spiegazioni della maestra non solo confondevano la mente del bambino ma attraversavano l’abisso che separa il concreto dall’astratto, la forma di un oggetto dalla sua metematica.

                      (da La scoperta del bambino. Capitolo VII: Gli esercizi. Garzanti, 1950) 


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  In questo brano Maria Montessori da alcune indicazioni alle maestre che lavorano con bambini piccoli o piccolissimi:
- accertarsi di avere l'attenzione del bambino focalizzata sull'oggetto mentre lo si denomina (i nomi dei colori);
- conoscere e tener conto, come prerequisito, delle capacità cognitive attuali del bambino; nel brano, la capacità (assente) di seguire il senso di un lungo discorso; 
- non inondare di parole inutili la situazione di apprendimento al fine di non creare possibili distrazioni in compiti che primariamente non sono linguistici. 
Tali accorgimenti la pedagogista italiana li aveva probabilmente sviluppati a partire dalla sua esperienza con bambini con svariate forme di deficit cognitivi (ma anche linguistici, comunicativi, prassici, ecc..). 
 Nell'ultimo paragrafo riportato infine, in maniera sicuramente notevole per l'epoca, la studiosa indica anche al lettore contemporaneo la differenza (indipendenza) tra cognizione spaziale e cognizione numerica.
  
 Altri punti della visione generale montessoriana dell'educazione che ritroviamo sopra: 
- la concezione del maestro come scienziato, capace di osservare analiticamente i comportamenti dei bambini, sia spontanei che nei compiti assegnati (prestazioni)
- il far leva sull'interesse naturale per il mondo degli oggetti (quasi tutti i bambini amano gli incastri, fare le torri coi cubi ecc) e un basare l'apprendimento sull'esperienza (empirismo) 
- l'esigenza di far esercitare al bambino determinate abilità mirate a un ulteriore sviluppo mentale e culturale 
- l'opposizione, tipica dell'attivismo pedagogico, al verbalismo nozionistico delle scuole tradizionali 
- la più generale necessità etica di essere sinceri e trasparenti con i bambini. 

12 aprile 2016

L'ateismo e l'esistenzialismo di Jean-Paul Sartre

Che cos'è l'esistenzialismo? [...]
Ciò che rende complesse le cose è il fatto che vi sono due specie di esistenzialismi: gli uni che sono cristiani, e fra questi metterei Jaspers e Gabriel Marcel; e gli altri che sono gli esistenzialisti atei, fra i quali bisogna porre Heidegger, gli esistenzialisti francesi e me stesso. Essi hanno in comune soltanto questo: ritengono che l'esistenza preceda l'essenza o, se volete, che bisogna partire dalla soggettività. 
            In che modo è da intendere la cosa? Quando si considera un oggetto fabbricato, come ad esempio, un libro o un tagliacarte, si sa che tale oggetto è opera di un artigiano che si è ispirato ad un concetto. L’artigiano si è riferito al concetto di tagliacarte e, allo stesso modo, ad una preliminare tecnica di produzione che fa parte del concetto stesso e che è in fondo una “ricetta”. Quindi il tagliacarte è, da un lato, un oggetto che si fabbrica in una determinata maniera e, dall’altro, qualcosa che ha un’utilità ben definita, tanto che non si può immaginare un tagliacarte senza sapere a  che cosa debba servire. Diremo dunque, per quanto riguarda il tagliacarte che l’essenza – cioè l’insieme delle conoscenze tecniche e delle qualità che ne permettono la fabbricazione e la definizione – precede l’esistenza; e così la presenza davanti a me di un certo tagliacarte o di un certo libro è determinata. Ci troviamo dunque in presenza di una visione tecnica del mondo per cui si può dire che la produzione precede l’esistenza. Allorché noi pensiamo un Dio creatore, questo Dio è concepito in sostanza come un artigiano supremo.
[…] Così il concetto di uomo, nella mente di Dio, è come l’idea del tagliacarte nella mente del fabbricante, e Dio crea l’uomo servendosi di una tecnica determinata e ispirandosi ad una determinata concezione, così come l’artigiano che produce il tagliacarte. In tal modo, l’uomo individuale incarna un certo concetto che è nell’intelletto di Dio. Nel secolo XVIII con i filosofi atei, la nozione di Dio viene eliminata, non così però l'idea che l'essenza preceda l'esistenza. Questa idea la troviamo un po' dappertutto: in Diderot, in Voltaire e nello stesso Kant. 
L'uomo possiede una natura umana: questa natura, cioè il concetto di uomo si trova presso tutti gli uomini, il che significa che ogni uomo è un esempio particolare di un concetto universale: l'uomo. In Kant da questa universalità risulta che l'uomo delle foreste, l'uomo della natura, come l'uomo civile, sono soggetti alla stessa definizione e possiedono le stesse qualità fondamentali. Così anche nel pensiero di Kant l'essenza di uomo precede quell'esistenza storica che incontriamo nella natura.

L’esistenzialismo ateo, che io rappresento, è più coerente. Se Dio non esiste, esso afferma, c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: questo essere è l’uomo o, come dice Heidegger, la realtà-umana. Che significa in questo caso che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo secondo la concezione esistenzialista non è definibile, in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito e sarà quale si sarà fatto. 
Così non c’è una natura umana perché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo. Ed è anche quello che si chiama la soggettività e che ci viene rimproverata con questo termine. 
Ma che cosa vogliamo dire noi, con questo, se non che l’uomo ha una dignità più grande che non la pietra o il tavolo? Perché noi vogliamo dire che l’uomo in primo luogo esiste, ossia che egli è in primo luogo ciò che si lancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di proiettarsi verso l’avvenire. […] Così il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. […]

      Allorché verso il 1880 alcuni professori francesi tentarono di costruire una morale laica, ragionarono pressappoco così: Dio è un’ipotesi inutile e costosa: eliminiamola; ma è necessario tuttavia, perché ci siano una morale, una società, un mondo civile, che certi valori siano presi sul serio e considerati come esistenti a priori; bisogna che sia obbligatorio a priori essere onesti, non mentire, non battere la propria donna, fare figli ecc. Dobbiamo fare quindi un piccolo lavoro che permetterà di mostrare che quei valori esistono ugualmente inscritti in un cielo intelligibile, anche se Dio non esiste. In altre parole, niente muterà se Dio non esiste: ritroveremo le stesse norme di onestà, di progresso, di umanismo, e avremo fatto di Dio un’ipotesi obsoleta che morirà tranquillamente da sola. 

L’esistenzialista al contrario pensa che è molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile;
non può più esserci un bene a priori poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire e per questa precisa ragione: siamo su di un piano su cui ci sono solamente gli uomini. [Nel romanzo I Fratelli Karamazov] Dostoevskij ha scritto: “Se Dio non esistesse tutto sarebbe permesso”. 
Ecco il punto di partenza dell’ esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se dio non esiste e di conseguenza, l’uomo è abbandonato perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità di ancorarsi. E anzitutto non trova delle scuse. Se davvero l’esistenza precede l’essenza non si potrà mai fornire spiegazioni riferendosi ad una natura umana data e fissata; in altri termini non vi è determinismo: l’uomo è libero, l’uomo è libertà. Se Dio non esiste, non troviamo davanti a noi valori o ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Siamo soli. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e nondimeno, libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa. L’esistenzialista non crede alla potenza [preponderante] delle passioni. Mai penserà che una bella passione è quel torrente devastatore che porta fatalmente l’uomo a certe azioni, e che perciò vale come una scusa.
L’esistenzialista [piuttosto] ritiene l’uomo responsabile di quella passione. Egli non penserà neppure che l’uomo può trovare aiuto in un segno dato sulla terra per orientarlo: pensa invece che l’individuo interpreta da solo il segno a suo piacimento. L’esistenzialista pensa dunque che l’uomo senza appoggio né aiuto, è condannato in ogni momento a inventare l’uomo. […]
     Mi si è rimproverato di domandare se l’esistenzialismo sia un umanismo. Mi è stato detto: ma lei ha scritto ne La nausea che umanisti avevano toro, si è fatto beffe di una certa specie di umanismo; perché si ricrede ora? In realtà la parola umanismo ha due sensi molto differenti. Per umanismo si può intendere una dottrina che considera l’uomo come fine e come valore superiore. […] Ma l’esistenzialismo ci dispensa da ogni giudizio di questo genere; l’esistenzialista non prenderà mai l’uomo come fine, perché l’uomo è sempre da fare. Non dobbiamo credere che ci sia un’umanità della quale si possa celebrare il culto, al modo di Auguste Comte. Il culto dell’umanità mette capo all’umanismo chiuso in se stesso di Comte e, bisogna pur dirlo, al fascismo. E’ un umanismo che noi non vogliamo.
Ma l’umanismo ha [anche] un altro senso ed è in sostanza, questo: l’uomo è costantemente fuori di se stesso; solo progettandosi e perdendosi fuori di sé egli fa esistere l’uomo e d’altra parte, solo perseguendo fini trascendenti [la propria coscienza], egli può esistere; l’uomo, essendo questo superamento, e non cogliendo gli oggetti che in relazione a questo superamento, è al cuore, al centro di questo superamento. Non c’è altro universo che un universo umano, l’universo della soggettività umana. Questa connessione tra la trascendenza come costitutiva dell’uomo – non nel senso che si dà alla parola quando si dice che Dio è trascendente, ma nel senso di un oltrepassamento – e la soggettività, nel senso che l’uomo non è chiuso in se stesso ma sempre presente in un universo umano, è quello che noi chiamiamo umanismo esistenzialista.

        Umanismo perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui e che proprio nell’abbandono egli deciderà di se stesso; e perché noi mostriamo che, non nel rivolgersi verso se stesso ma sempre cercando fuori di sé uno scopo, l’uomo si realizzerà precisamente come umano. Si vede dopo queste riflessioni, che nulla è più ingiusto delle obiezioni che ci vengono mosse. L'esistenzialismo non è altro che uno sforzo per dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente. Tale posizione non cerca per nulla di sprofondare l'uomo nella disperazione. 


Ma se - come i cristiani - si definisce disperazione ogni atteggiamento di incredulità, esso muove dalla disperazione originaria. L'esistenzialismo non vuole esser ateo in modo tale da esaurirsi nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla; ecco in nostro punto di vista. Non che noi crediamo che Dio esista, ma pensiamo che il problema non sia quello della sua esistenza; bisogna che l'uomo ritrovi se stesso e si persuada che niente può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell'esistenza di Dio. In questo senso l'esistenzialismo è un ottimismo, una dottrina dell'azione, e solo per malafede - confondendo la loro disperazione con la nostra - i cristiani possono chiamrci disperati.

 (Jean-Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, 1946)