14 aprile 2018

La reazione contro la diversità - da Etologia della guerra di I. Eibl-Eibsefeldt (1983)

    I membri del gruppo che si scostino dalla norma per l'aspetto o per il comportamento divengono spesso oggetto di aggressioni che obbligano il deviante a conformarsi di nuovo alla norma, altrimenti il gruppo lo espellerà con la forza. Qui l'aggressione esercita una funzione di mantenimento della norma che è certamente vantaggiosa per la vita nei gruppi di piccole dimensioni. In tali gruppi una vita sociale armoniosa è possibile solo se ciascuno è in grado di prevedere il comportamento degli altri. Ciascuno si aspetta dagli altri un comportamento conforme alle norme e la devianza viene considerata come estranea. Questa parola esprime bene l'incipiente straniamento cioè l'inizio dell'esclusione dal gruppo. Il meccanismo in sè opera alla cieca: perfino quando il deviante è stato sfigurato o storpiato da una malattia o da un incidente, oppure quando è troppo grasso o balbuziente e non è in condizioni di correggere questi difetti, egli diviene oggetto di canzonatura. La reazione si presenta in forma piuttosto brutale e diretta nella scuola: in questo i bambini sanno essere molto crudeli. Ricordo un'illustrazione comparsa su una pubblicazione dell'Unesco: vi si vedeva un  bambino con le grucce che sorrideva smarrito mentre una torma di ragazzi lo inseguiva e scagliava pietre contro di lui. Poiché una reazione (1) analoga è stata osservata anche negli scimpanzé si deve concludere che si tratta di un'eredità molto antica.
    La reazione contro la diversità segue un modello universale ben determinato. Nella prima fase, il comportamento deviante viene deriso e messo in evidenza con l'imitazione (scimmiottatura) (2). Ciò permette di far capire alla controparte quale sia la sua trasgressione e le offre l'occasione di ri-adeguarsi. Se la scimmiottatura, la derisione, la canzonatura e la minaccia non inducono l'interessato a mutare la propria condotta, si giunge all'attacco fisico.
    In sostanza si tratta di una forma particolare di "aggressione educativa". Un interesse particolare offrono le forme espressive ritualizzate che precedono l'attacco fisico: si mostra la lingua, si sputa, si esibiscono i genitali o le natiche e si ride in segno di dileggio. Quest'ultima attività è quella che sembra avere il più basso livello di soglia. Si ride facilmente delle piccole goffaggini altrui, dunque dei comportamenti che si scostano dalla norma, e ciò viene ritenuto divertente. D'altra parte un bambino ride di un movimento sbagliato o goffo soltanto quando egli steso è in grado di padroneggiare tale movimento maldestro osservato in un altro. L'umorismo aggressivo, come ci insegnano le pagine dei rotocalchi dedicata alle barzellette, gode di un ampio mercato. Si deride anche chi, per la sua goffaggine, abbia subito un leggero danno, si sia ferito lievemente o abbia infranto qualcosa. Questa gioia maligna viene manifestata già dai bambini sotto i due anni. 

    L'azione di deridere un'altra persona ha certo una motivazione aggressiva: ciò è perfettamente avvertito anche da chi subisce la derisione. Allo stesso tempo, la reazione  collettiva di attacco insita nel riso, che del resto è contagioso, ha l'effetto di legare tra loro i membri del gruppo. 

da I. Eibl-Eisefeldt, "Etologia della guerra", p. 116-8, Boringhieri (1983)
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(1): per l'etologia di Eibl-Eibsefeldt qualunque comportamento venga messo in atto presuppone per definizione uno stimolo scatenante (qui la vista di un conspecifico storpio) che lo precede, anche se si tratta di un'azione frutto di libera e spontanea iniziativa come in questo caso.
(2): sembra che l'autore si stia qui riferendo alle interazioni tra bambini più che a quelle animali. Le più recenti ricerche sul bullismo non concordano con questa schematizzazione del fenomeno ma si potrebbero comunque giovare di una sua interpretazione etologica. 

Altre notizie sull'aggressività dei primati verso i conspecifici: www.sciencemag.org/news/2014/09/why-do-chimps-kill-each-other

3 aprile 2018

Felicità e bellezza nella Grecia Antica: Solone e Creso (da Erodoto, Le Storie, V sec. a.C.)

Solone
    ... giunsero a Sardi, ricca e fiorente, tutti i sapienti della Grecia che vissero in quell’epoca, chi in una circostanza, chi in un’altra, e tra gli altri anche Solone di Atene. Questi, dopo aver dato leggi agli Ateniesi su loro richiesta, rimase lontano dalla sua città per dieci anni: era partito con il pretesto di vedere il mondo, ma in realtà per non essere costretto ad abrogare qualcuna delle leggi che aveva stabilito. Infatti gli Ateniesi, da soli, non erano in grado di farlo: erano vincolati da solenni giuramenti a osservare per dieci anni le leggi istituite da Solone. Per tale motivo e per vedere il mondo, Solone lasciò Atene e si recò in Egitto presso Amasi e poi a Sardi presso Creso. 
    Arrivato a Sardi, fu ospitato da Creso nel palazzo reale; due ο tre giorni dopo, dei servi, per ordine di Creso, lo condussero a vedere i tesori e gli mostrarono che tutto era grandioso e opulento.
    Quando Solone ebbe osservato ed esaminato ogni cosa, Creso, al momento opportuno, gli domandò: 
    «Ospite ateniese, fino a noi è giunta la tua fama, che è grande sia per la tua sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che hai visitato molti paesi per amore del sapere e per conoscere il mondo; perciò ora mi è venuto il desiderio di chiederti se hai mai visto un uomo che fosse il più felice di tutti». 
    Creso faceva questa domanda perché riteneva di essere il più felice degli uomini, ma Solone, senza nessuna adulazione e in tutta sincerità, rispose: 
    «Sì, ο re: Tello di Atene». 
    Creso, stupito da questa risposta, chiese impetuosamente: 
    «Per quale motivo giudichi Tello l’uomo più felice?». 
    E Solone: 
    «Tello, vivendo in una città prospera, ebbe dei figli belli e buoni; vide nascere figli a tutti i suoi figli e tutti questi bambini sopravvissero; e dopo una vita prospera, almeno per quanto è possibile da noi, ebbe una morte davvero splendida: in una battaglia svoltasi a Eleusi tra gli Ateniesi e i loro vicini, accorso in aiuto, mise in fuga i nemici e morì gloriosamente; gli Ateniesi lo seppellirono a pubbliche spese là dove era caduto e gli resero grandi onori». 
Achille, archetipo dell'eroe, uccide l'amazzone Pentesilea

    Solone, illustrando i molti aspetti felici della vita di Tello, indusse Creso a fare altre domande: e Creso gli chiese chi, tra gli uomini visti da Solone, venisse dopo Tello, sicuro di ottenere almeno il secondo posto. 
    Ma Solone rispose: 
    «Cleobi e Bitone. Argivi di stirpe, avevano un patrimonio sufficiente e, inoltre, una notevole forza fisica: entrambi avevano riportato premi nelle competizioni atletiche e di loro si racconta la storia seguente.
Atletismo greco
Ad Argo si celebrava la festa di Era ed era assolutamente necessario che la loro madre fosse condotta al santuario con un carro, ma i buoi non erano arrivati in tempo dalla campagna: allora, pressati dall’urgenza, i due giovani si misero essi stessi sotto il giogo, trainarono il carro, sul quale viaggiava la madre, e arrivarono al santuario dopo aver percorso quarantacinque stadi. Compiuta questa impresa davanti agli occhi di tutta la popolazione riunita lì per la festa, terminarono la loro vita nel migliore dei modi: e tramite loro la divinità volle mostrare che per l’uomo essere morto è meglio che vivere. Gli Argivi, circondando i due giovani, si congratulavano con loro per la loro forza e le Argive con la madre perché aveva avuto simili figli. La madre, felicissima per la loro azione e per gli elogi, in piedi davanti alla statua della dea, la pregò di concedere ai suoi figli Cleobi e Bitone, che avevano dato prova di onorarla grandemente, la sorte migliore che possa toccare a un uomo. Dopo questa preghiera, i due giovani, dopo aver partecipato al sacrificio e al banchetto, andarono a dormire nel santuario stesso e non si svegliarono più, ma morirono così. Gli Argivi fecero erigere due statue che li ritraevano e le consacrarono a Delfi, ritenendo che fossero stati due uomini eccellenti». 
Cleobi e Bitone del IV sec. a.C.

    Solone dunque assegnò a Cleobi e a Bitone il secondo posto in felicità.      Allora Creso, adirato, disse: 
    «E la mia felicità, ospite ateniese, la consideri del tutto insignificante, tanto che non mi hai ritenuto neppure pari a privati cittadini?». 
    Solone replicò: 
    «Creso, tu interroghi sulla condizione umana un uomo che sa che la divinità è piena di invidia e ama provocare sconvolgimenti. In un lungo arco di tempo si ha modo di vedere molte cose che non si vorrebbero vedere e di subirne molte. Fissiamo a settanta anni il termine della vita umana. Questi settanta anni fanno venticinquemiladuecento giorni, senza contare il mese intercalare; se poi un anno su due lo si prolunga di un mese, affinché le stagioni vengano a cadere al momento giusto, in settanta anni i mesi intercalari sono trentacinque e fanno altri millecinquanta giorni. Di tutti questi giorni che formano i settanta anni e che sono ventiseimiladuecentocinquanta, nessuno ci porta esattamente le stesse cose di un altro. Perciò, ο Creso, l’uomo è  completamente in balia del caso. Tu mi appari provvisto di grandi ricchezze e re di molti sudditi: ma quanto a ciò che mi domandi, io non posso pronunciarmi prima di sapere che hai concluso felicemente la tua vita. Chi è molto ricco non è affatto più felice di chi possiede appena il necessario per sopravvivere giorno per giorno, se la sorte non lo accompagna fino a una morte serena in una situazione di completa prosperità. In effetti molti uomini ricchissimi sono infelici, mentre molti, che dispongono di mezzi modesti, sono veramente fortunati. L’uomo ricco ma infelice ha soltanto due vantaggi rispetto a chi è fortunato, mentre quest’ultimo ne ha molti rispetto a chi è ricco e infelice. Il primo ha maggiori possibilità di soddisfare i propri desideri e di far fronte a una grave sventura che si abbatta su di lui, ma l’altro ha rispetto a lui questi vantaggi: se pure non è in grado di far fronte nello stesso modo a sventure e desideri, tuttavia la sua buona sorte li tiene lontani da lui: è immune da difetti fisici, da malattie e da disgrazie, ha dei bei figli ed è bello lui stesso (1). Se poi terminerà serenamente la propria vita, ecco l’uomo che vai cercando, colui che merita di essere chiamato felice: ma prima che muoia, aspetta e non chiamarlo felice, ma fortunato. 
Erodoto

Avere tutte queste cose insieme non è possibile per un essere umano, così come nessun paese basta a se stesso e produce tutto ciò che gli è necessario: se possiede una cosa, è privo di un’altra: e il paese che ne possiede di più, è il migliore. Analogamente nessun singolo individuo è autosufficiente: se ha una cosa, manca di un’altra: e chi trascorre la propria esistenza in possesso del maggior numero di beni e poi conclude la sua vita dolcemente, ecco costui, come un re, a mio avviso ha diritto al titolo di uomo felice. 
Frammento di uno dei Papiri di Ossirinco, contenente brani delle Storie 
Di ogni cosa bisogna esaminare la conclusione, cioè come andrà a finire: a molti il dio ha fatto intravvedere la felicità per poi annientarli completamente.»




  da Erodoto, Le Storie, libro I, par. 31 - 33, ed. UTET

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(1): il pensiero greco riconobbe che la bellezza estetica, sia per l'uomo che per la donna, era indispensabile per la vita felice; lo abbiamo visto già in un brano dell'Etica Nicomachea di Aristotele