12 aprile 2016

L'ateismo e l'esistenzialismo di Jean-Paul Sartre

Che cos'è l'esistenzialismo? [...]
Ciò che rende complesse le cose è il fatto che vi sono due specie di esistenzialismi: gli uni che sono cristiani, e fra questi metterei Jaspers e Gabriel Marcel; e gli altri che sono gli esistenzialisti atei, fra i quali bisogna porre Heidegger, gli esistenzialisti francesi e me stesso. Essi hanno in comune soltanto questo: ritengono che l'esistenza preceda l'essenza o, se volete, che bisogna partire dalla soggettività. 
            In che modo è da intendere la cosa? Quando si considera un oggetto fabbricato, come ad esempio, un libro o un tagliacarte, si sa che tale oggetto è opera di un artigiano che si è ispirato ad un concetto. L’artigiano si è riferito al concetto di tagliacarte e, allo stesso modo, ad una preliminare tecnica di produzione che fa parte del concetto stesso e che è in fondo una “ricetta”. Quindi il tagliacarte è, da un lato, un oggetto che si fabbrica in una determinata maniera e, dall’altro, qualcosa che ha un’utilità ben definita, tanto che non si può immaginare un tagliacarte senza sapere a  che cosa debba servire. Diremo dunque, per quanto riguarda il tagliacarte che l’essenza – cioè l’insieme delle conoscenze tecniche e delle qualità che ne permettono la fabbricazione e la definizione – precede l’esistenza; e così la presenza davanti a me di un certo tagliacarte o di un certo libro è determinata. Ci troviamo dunque in presenza di una visione tecnica del mondo per cui si può dire che la produzione precede l’esistenza. Allorché noi pensiamo un Dio creatore, questo Dio è concepito in sostanza come un artigiano supremo.
[…] Così il concetto di uomo, nella mente di Dio, è come l’idea del tagliacarte nella mente del fabbricante, e Dio crea l’uomo servendosi di una tecnica determinata e ispirandosi ad una determinata concezione, così come l’artigiano che produce il tagliacarte. In tal modo, l’uomo individuale incarna un certo concetto che è nell’intelletto di Dio. Nel secolo XVIII con i filosofi atei, la nozione di Dio viene eliminata, non così però l'idea che l'essenza preceda l'esistenza. Questa idea la troviamo un po' dappertutto: in Diderot, in Voltaire e nello stesso Kant. 
L'uomo possiede una natura umana: questa natura, cioè il concetto di uomo si trova presso tutti gli uomini, il che significa che ogni uomo è un esempio particolare di un concetto universale: l'uomo. In Kant da questa universalità risulta che l'uomo delle foreste, l'uomo della natura, come l'uomo civile, sono soggetti alla stessa definizione e possiedono le stesse qualità fondamentali. Così anche nel pensiero di Kant l'essenza di uomo precede quell'esistenza storica che incontriamo nella natura.

L’esistenzialismo ateo, che io rappresento, è più coerente. Se Dio non esiste, esso afferma, c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: questo essere è l’uomo o, come dice Heidegger, la realtà-umana. Che significa in questo caso che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo secondo la concezione esistenzialista non è definibile, in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito e sarà quale si sarà fatto. 
Così non c’è una natura umana perché non c’è un Dio che la concepisca. L’uomo è soltanto, non solo quale si concepisce, ma quale si vuole e precisamente quale si concepisce dopo l’esistenza e quale si vuole dopo questo slancio verso l’esistere: l’uomo non è altro che ciò che si fa. Questo è il principio primo dell’esistenzialismo. Ed è anche quello che si chiama la soggettività e che ci viene rimproverata con questo termine. 
Ma che cosa vogliamo dire noi, con questo, se non che l’uomo ha una dignità più grande che non la pietra o il tavolo? Perché noi vogliamo dire che l’uomo in primo luogo esiste, ossia che egli è in primo luogo ciò che si lancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di proiettarsi verso l’avvenire. […] Così il primo passo dell’esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di quello che egli è e di far cadere su di lui la responsabilità totale della sua esistenza. […]

      Allorché verso il 1880 alcuni professori francesi tentarono di costruire una morale laica, ragionarono pressappoco così: Dio è un’ipotesi inutile e costosa: eliminiamola; ma è necessario tuttavia, perché ci siano una morale, una società, un mondo civile, che certi valori siano presi sul serio e considerati come esistenti a priori; bisogna che sia obbligatorio a priori essere onesti, non mentire, non battere la propria donna, fare figli ecc. Dobbiamo fare quindi un piccolo lavoro che permetterà di mostrare che quei valori esistono ugualmente inscritti in un cielo intelligibile, anche se Dio non esiste. In altre parole, niente muterà se Dio non esiste: ritroveremo le stesse norme di onestà, di progresso, di umanismo, e avremo fatto di Dio un’ipotesi obsoleta che morirà tranquillamente da sola. 

L’esistenzialista al contrario pensa che è molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile;
non può più esserci un bene a priori poiché non c’è nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire e per questa precisa ragione: siamo su di un piano su cui ci sono solamente gli uomini. [Nel romanzo I Fratelli Karamazov] Dostoevskij ha scritto: “Se Dio non esistesse tutto sarebbe permesso”. 
Ecco il punto di partenza dell’ esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito se dio non esiste e di conseguenza, l’uomo è abbandonato perché non trova, né in sé né fuori di sé, possibilità di ancorarsi. E anzitutto non trova delle scuse. Se davvero l’esistenza precede l’essenza non si potrà mai fornire spiegazioni riferendosi ad una natura umana data e fissata; in altri termini non vi è determinismo: l’uomo è libero, l’uomo è libertà. Se Dio non esiste, non troviamo davanti a noi valori o ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Siamo soli. Situazione che mi pare di poter caratterizzare dicendo che l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e nondimeno, libero perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa. L’esistenzialista non crede alla potenza [preponderante] delle passioni. Mai penserà che una bella passione è quel torrente devastatore che porta fatalmente l’uomo a certe azioni, e che perciò vale come una scusa.
L’esistenzialista [piuttosto] ritiene l’uomo responsabile di quella passione. Egli non penserà neppure che l’uomo può trovare aiuto in un segno dato sulla terra per orientarlo: pensa invece che l’individuo interpreta da solo il segno a suo piacimento. L’esistenzialista pensa dunque che l’uomo senza appoggio né aiuto, è condannato in ogni momento a inventare l’uomo. […]
     Mi si è rimproverato di domandare se l’esistenzialismo sia un umanismo. Mi è stato detto: ma lei ha scritto ne La nausea che umanisti avevano toro, si è fatto beffe di una certa specie di umanismo; perché si ricrede ora? In realtà la parola umanismo ha due sensi molto differenti. Per umanismo si può intendere una dottrina che considera l’uomo come fine e come valore superiore. […] Ma l’esistenzialismo ci dispensa da ogni giudizio di questo genere; l’esistenzialista non prenderà mai l’uomo come fine, perché l’uomo è sempre da fare. Non dobbiamo credere che ci sia un’umanità della quale si possa celebrare il culto, al modo di Auguste Comte. Il culto dell’umanità mette capo all’umanismo chiuso in se stesso di Comte e, bisogna pur dirlo, al fascismo. E’ un umanismo che noi non vogliamo.
Ma l’umanismo ha [anche] un altro senso ed è in sostanza, questo: l’uomo è costantemente fuori di se stesso; solo progettandosi e perdendosi fuori di sé egli fa esistere l’uomo e d’altra parte, solo perseguendo fini trascendenti [la propria coscienza], egli può esistere; l’uomo, essendo questo superamento, e non cogliendo gli oggetti che in relazione a questo superamento, è al cuore, al centro di questo superamento. Non c’è altro universo che un universo umano, l’universo della soggettività umana. Questa connessione tra la trascendenza come costitutiva dell’uomo – non nel senso che si dà alla parola quando si dice che Dio è trascendente, ma nel senso di un oltrepassamento – e la soggettività, nel senso che l’uomo non è chiuso in se stesso ma sempre presente in un universo umano, è quello che noi chiamiamo umanismo esistenzialista.

        Umanismo perché noi ricordiamo all’uomo che non c’è altro legislatore che lui e che proprio nell’abbandono egli deciderà di se stesso; e perché noi mostriamo che, non nel rivolgersi verso se stesso ma sempre cercando fuori di sé uno scopo, l’uomo si realizzerà precisamente come umano. Si vede dopo queste riflessioni, che nulla è più ingiusto delle obiezioni che ci vengono mosse. L'esistenzialismo non è altro che uno sforzo per dedurre tutte le conseguenze da una posizione atea coerente. Tale posizione non cerca per nulla di sprofondare l'uomo nella disperazione. 


Ma se - come i cristiani - si definisce disperazione ogni atteggiamento di incredulità, esso muove dalla disperazione originaria. L'esistenzialismo non vuole esser ateo in modo tale da esaurirsi nel dimostrare che Dio non esiste; ma preferisce affermare: anche se Dio esistesse, ciò non cambierebbe nulla; ecco in nostro punto di vista. Non che noi crediamo che Dio esista, ma pensiamo che il problema non sia quello della sua esistenza; bisogna che l'uomo ritrovi se stesso e si persuada che niente può salvarlo da se stesso, fosse pure una prova valida dell'esistenza di Dio. In questo senso l'esistenzialismo è un ottimismo, una dottrina dell'azione, e solo per malafede - confondendo la loro disperazione con la nostra - i cristiani possono chiamrci disperati.

 (Jean-Paul Sartre, L'esistenzialismo è un umanismo, 1946)