25 dicembre 2013

David Hume, Sul suicidio (1755)

"Che cosa significa dunque l'opinione che un uomo che, stanco della vita e perseguitato dai dolori e dalle miserie, vinca coraggiosamente il terrore naturale della morte ed esca da questa scena crudele; che un tale uomo incorra nell'indignazione del creatore per aver violato l'opera della provvidenza e turbato l'ordine dell'universo? Dobbiamo ritenere che l'onnipotente abbia riservato a sè il potere di disporre della vita degli uomini e non abbia sottoposto questo evento, come tutti gli altri, alle leggi generali dell'universo? Affermare questo sarebbe affermare il falso; la vita degli uomini dipende [infatti] dalle stesse leggi a cui è soggetta la vita di tutti gli altri animali e tutte queste esistenze sono soggette alle leggi generali della materia e del moto. 

[...] Se dunque la vita degli uomini dipende dalle leggi generali della materia e del moto, è forse criminale un uomo che dispone della sua vita perché, in ogni caso, è criminale il violare queste leggi o turbarne l'azione? Ciò pare assurdo: gli animali sono affidati alla propria prudenza e capacità per condursi nel mondo ed hanno ogni diritto di alterare le operazioni della natura, per quanto è in loro potere. Senza tale diritto essi non potrebbero sussistere un [solo] momento: ogni azione, ogni movimento, di un uomo muta l'ordine di qualche parte della materia e svia dal loro corso ordinario le leggi generali del moto.

Mettendo insieme queste conclusioni, troviamo che la vita umana dipende dalle leggi generali della materia e del moto e che disturbare o alterare queste leggi non significa usurpare l'opera della provvidenza. Non può ciascuno disporre dunque liberamente della propria vita? E non può legittimamente far uso delle facoltà di cui la natura lo ha dotato? Per distruggere l'evidenza di questa conclusione dovremmo addurre un motivo che giustificasse un'eccezione relativa a questo caso particolare; forse perché la vita umana è così importante che sarà presunzione per la prudenza umana il disporne? Ma per l'universo la vita di un uomo non è più importante di quella di un'ostrica. E anche se fosse molto importante, l'ordine della natura umana l'ha sottoposta alla prudenza umana e ci costringe a prendere decisioni in ogni circostanza. Se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell'Onnipotente, al punto che per gli uomini fosse un'usurpazione dei Suoi diritti, sarebbe criminale allo stesso modo anche il salvare e preservare la vita. Se cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il dominio peculiare dell'Onnipotente prolungando la mia vita oltre il periodo che le era assegnato in base alle leggi della materia e del moto. 

[...] sono convinto di un fatto: la vita umana può essere infelice e la mia esistenza, prolungata più a lungo, può diventare insopportabile. Ma ringrazio la provvidenza sia del bene che ho goduto sia della facoltà di fuggire il male che mi minaccia. Lagnarsi della provvidenza è affar vostro se ritenete stupidamente di non avere tale potere e di dover ancora prolungare una vita odiosa piena di dolore e malattia, vergogna e povertà [...]

Si tratti di un essere animato o inanimato, ragionevole o irragionevole non importa: il suo potere deriva dal supremo creatore e rientra nell'ordine della divina provvidenza. Quando la ripugnanza del dolore prevale sull'amore della vita, quando un atto volontario anticipa gli effetti di cause cieche, ciò è soltanto una conseguenza dei poteri e dei principi che l'Onnipotente ha posto delle sue creature. La divina provvidenza resta inviolata ben al di là dei misfatti umani. [...] E' un'empietà dice la moderna superstizione europea porre fine alla nostra vita e ribellarsi in tal modo al creatore: e perché non è un'empietà dico io, costruire case, coltivar la terra o navigare il mare? In tutte queste azioni noi usiamo le nostre facoltà fisiche e morali per mutare il corso della natura; in nessuna facciamo di più. Sono dunque tutte ugualmente innocenti o ugualmente criminali.

[...] Nessuno può negare che il suicidio possa spesso coincidere con il nostro interesse e con il dovere che abbiamo verso noi stessi se si ammette che l'età, le malattie o le sventure possono far della vita un peso e renderla anche peggiore dell'annichilimento. Io credo che nessun uomo si sia mai liberato della propria vita finché valeva la pena di conservarla.

Perché è tale il nostro orrore naturale per la morte che motivi troppo lievi non potrebbero mai farci riconciliare con essa; e se anche le condizioni di salute o fortuna di un uomo non sembrano richiedere tale rimedio, possiamo però esser certi che chi vi abbia fatto ricorso senza ragioni apparenti fosse affetto da una incurabile depravazione o tristezza del carattere che gli avvelenava ogni gioia e lo rendeva infelice come se avesse subìto le più gravi disgrazie [...]"

Davide Hume, Sul suicidio, in Opere filosofiche, Laterza.